Il "Fermi": una scelta di vita

Teresa Magnanini

Ho cominciato ad insegnare al Fermi nell'autunno del 1972, fresca di laurea, esperta di tarda latinità e di umanesimo, sicura della mia formazione pedagogica, percorsa però dagli interrogativi suscitati della lezione di Don Milani, che non coincideva con ciò che avevo studiato sui libri, ma intravisto durante la mia esperienza di studente.
Al Fermi, la stagione del movimento studentesco e delle lotte operaie e sindacali aveva prodotto il risultato più importante, i corsi serali per adulti e io venivo assunta per insegnare italiano e storia nel triennio di chimica serale a cui si aggiungevano le ore di lettere in una seconda del corso diurno.
Due mondi mi si ponevano dinnanzi: quello degli adulti, consapevoli della conquista del loro diritto allo studio e quello dei ragazzi che avevano scelto il Fermi perché istituto tecnico, in cui le ore di Italiano erano poche e si studiava per diventare periti.
Da subito mi resi conto che ciò che avevo studiato non poteva essere trasmesso tout−court agli studenti, o per lo meno non poteva bastare. Avrei dovuto capire le ragioni del loro frequentare la scuola.
Non fu facile con gli adulti del serale. I rapporti umani erano cordiali, amichevoli. Insegnavo a persone che avevamo otto, dieci, quindici anni più di me, che lavoravano sodo, che arrivavano a scuola a volte stanchi, a volte in ritardo, a volte arrabbiati per il lavoro, o dopo aver litigato con le mogli o le fidanzate e che non accettavano facilmente le valutazioni negative, i segni rossi sotto le parole scorrette, i periodi che "non stavano in piedi" e che, forti delle recenti conquiste nel mondo del lavoro, credevano che queste fossero inezie, e che a volte si domandavano se "studiare non volesse dire diventare amici dei padroni" e loro con i "padroni" non volevano aver nulla a che spartire, ma nel contempo desideravano apprendere e conoscere.
Sapevo comunque di non essere sola, si "faceva squadra" con i colleghi, con gli studenti−lavoratori più consapevoli, più disponibili. Si proponevano nuove esperienze, si progettavano nuovi percorsi didattici e metodologici. Nacque cosė tra le tante la proposta della partecipazione a spettacoli teatrali: dopo le feroci contestazioni ai "borghesi" che frequentavano il Teatro Comunale, erano i lavoratori−studenti che andavano a teatro, pagando un biglietto ridotto, accompagnato da una tessera, stampata nella tipografia del Fermi, che, con tanto di timbro della scuola, recitava "lavoratore−studente".
Questa iniziativa apriva ai lavoratori un luogo di cultura e di svago, forse inaccessibile fino a quel momento. Era un modo, tra i tanti, per fare della scuola quell'occasione di crescita culturale e di promozione sociale che a mio parere realizza più compiutamente per ogni cittadino, il diritto alla conoscenza sancito dalla Costituzione.
Per me insegnare significa infatti offrire opportunità, aiutare a far crescere il senso critico, dare strumenti di emancipazione, di conoscenza del passato e del presente, aiutare a capirlo. E anch'io allora avevo il bisogno di capire com'era la realtà.
Ricordo i giorni del golpe in Cile e gli studenti−lavoratori che mi chiedevano di spiegare loro cos'era successo, se il progetto di Allende era come la Comune di Parigi, e io dovevo comprendere, interpretare gli eventi, per poterli spiegare. S'imparava insieme, ospitando i fuoriusciti Cileni, che raccontavano il dramma della loro democrazia, cosė come si prendeva consapevolezza del regime dei Colonnelli greci, insegnando un po' di italiano ai giovani studenti che dovevano sostenere il colloquio per essere ammessi a frequentare l'Università, oppure si chiedeva ad amici − docenti universitari o sindacalisti − di fare qualche lezione a noi docenti e agli studenti insieme.
Si era prima dei Decreti Delegati e già si riuniva il Consiglio di Gestione, si parlava di aggiornamento dei docenti, di seminari di formazione e l'Istituto era all'avanguardia nell'accoglienza, nell'attualità dei programmi, nella sperimentazione di nuove metodologie.
Quella prima esperienza mi ha legata al Fermi: non ho mai pensato di cambiare scuola, ho perfino rinunciato alla cattedra nella Scuola Statale, convinta che nell'Istituto avrei trovato l'ambiente e le persone che cercavo.
Il Fermi non ha perso nel tempo le sue peculiarità. Forse si è un po' spento l'entusiasmo, o forse ci si è arroccati nelle certezze di essere i migliori, di avere studenti motivati, consapevoli della scelta compiuta...richiesti dalle aziende, capaci di inventarsi nuove professioni, creativi e "unici".
Dialogo, confronto, collaborazione, ma anche momenti di scontro, hanno caratterizzato i miei anni di insegnamento, alcuni al serale tanti al diurno, con giovani ai quali, ancora oggi, spesso, sembro severa, rigorosa, forse rigida, o troppo esigente, ma con molti dei quali è nata un'amicizia e una stima che in alcuni casi dura ormai da decenni.
Insegnare mi piace, il confronto con gli studenti mi stimola, cerco di trasmettere loro l'entusiasmo dell'apprendere, della conoscenza, il valore della propria individualità, cerco di ascoltarli anche quando appaio irritata per la loro confusione, per il trascinarsi stanco nei corridoi e il tergiversare dinanzi a interrogazioni o compiti in classe. Mi spiace quando li vedo appiattirsi su un vuoto conformismo, preoccupati troppo spesso di nascondere la propria personalità, apparentemente sordi alla sollecitazione di essere autentici e contenti di ciò che apprendono, ma nel contempo sicura che, al di là dell'apparente disinteresse, ascoltano, imparano e, se dimenticheranno i contenuti, conserveranno il valore di un autentico rapporto umano.