QUANTI RICORDI !

RENATO COCCHI

Mi è stato consegnato un documento trovato al Fermi. È datato 6 maggio 1966 e che reca la mia firma. È la testimonianza di un primitivo e ingenuo movimento studentesco. Si tratta, infatti, di una lettera, che firmavo come Presidente del Consiglio di Istituto, inviata a tutti gli studenti dell'istituto con allegata la bozza dello "Statuto dell'Organismo Rappresentativo Studentesco" da discutere e approvare nell'Assemblea generale degli studenti. Averlo fra le mani mi ha emozionato e dato nostalgia... per quanto è bella giovinezza. Mi ha anche sollecitato una riflessione: le circostanze della vita hanno voluto che impegnato al Fermi per promuovere e "conquistare" un organismo rappresentativo degli studenti, mi sia poi ritrovato pochi anni dopo, all'Università, a partecipare ed animare il movimento degli studenti contro l'organismo rappresentativo, in quel caso degli studenti dell'Università di Modena, per dare "tutto il potere" all'Assemblea. Sono passati quarant'anni e per dar conto, soprattutto a chi è più giovane, del significato di quel documento e della vicenda di cui testimonia, ma anche del rapporto, apparentemente contraddittorio, con il cambio di rotta di qualche anno dopo all'Università, è necessario fare qualche premessa, parlare di chi erano gli studenti e cos'era il Fermi in quei primi anni sessanta. Per chi frequenta oggi il Fermi, e la scuola media superiore in genere, "andare a scuola" è cosa scontata, naturale, acquisita. Tant'è che lo fa la stragrande maggioranza dei giovani modenesi. Per quelli delle mie generazioni, nati nell'immediato dopoguerra, invece la scuola, e soprattutto quella superiore, rappresentava "una conquista". La maggior parte di noi proveniva, infatti, da famiglie di lavoratori. Operai, artigiani, impiegati, piccoli commercianti e anche contadini, che dopo i duri anni del dopoguerra stavano ritrovando una condizione sociale finalmente accettabile e dignitosa. La società, sia pure a fatica, andava modernizzandosi. Tutto spingeva quindi a pensare al futuro, e il pensiero andava, inevitabilmente e in primo luogo, a un "futuro migliore per i propri figli". La scuola poteva essere lo strumento più immediato e sicuro.
Accedere alla scuola e all'istruzione non era però facile. Neppure la scuola media era aperta a tutti e tanto meno obbligatoria. I figli dei lavoratori spesso si fermavano alla quinta elementare o, nel caso, entravano nel percorso scolastico di serie B: l'avviamento professionale e poi o l'apprendistato o la scuola professionale. Io stesso sono arrivato al Fermi per questo percorso. La mia famiglia non poteva permettersi le lezioni private che servivano per preparare l'esame di ammissione alla scuola media, quindi frequentai l'avviamento professionale, sostenendo e superando poi l'ulteriore esame che era necessario per accedere all'Istituto Tecnico. Dunque, per le famiglie dei lavoratori non era sempre possibile "mandare a scuola" i propri figli, e quando lo facevano questo comportava molti problemi e sacrifici.
Noi, ragazzi e ragazze di allora, avvertivamo tutto questo. Chi era studente non poteva non vedere e verifìcare il "privilegio" di cui godeva rispetto al coetaneo, all'amico di infanzia, che invece andava a lavorare in officina o in cantiere. Privilegio per l'immediato, ma anche per il futuro, giacché tutti ci dicevano che il nostro futuro, la nostra collocazione professionale e sociale sarebbe stata diversa, migliore, in primo luogo rispetto ai nostri genitori. Per questo la scuola rappresentava ed era percepita come una "conquista".
Poi c'era l'orgoglio di "essere del Fermi", di sentirsi in qualche modo partecipi di una nuova storia, anche questo va sottolineato. Il Fermi era l'ultimo nato fra gli istituti cittadini, nato con gli "scarti" e quindi come "costola" del "grande Corni". Stava poi sulla frontiera allora avanzata della chimica e dell'elettronica. I pochi che eravamo, almeno all'inizio, giravano per Modena, per raggiungere le diverse sedi in cui si svolgeva l'attività scolastica, portando con orgoglio sul camice lo scudetto con l'alambicco circondato dal modello planetario dell'atomo. (A proposito, perché la scuola ha abbandonato quel bel simbolo e distintivo?).
Erano gli anni del miracolo economico, del rapido e tumultuoso sviluppo industriale dell'Italia. Anche i giovani vivevamo quel clima, un po' illusorio, in cui era senso comune che tutti avrebbero avuto nuove e maggiori opportunità, che ci sarebbe stata buona occupazione per tutti, che il progresso tecnico e scientifico, prima ancora che industriale, avrebbe cambiato la società e risolto molti, se non tutti i problemi. E noi eravamo li, praticamente in prima fila. Io frequentavo il corso di chimica. Uno degli argomenti principali che si studiava era la petrolchimica, allora di gran moda e simbolo dello sviluppo italiano. Parole come craking e reforming, che avevamo imparato, identificavano il modo per avere gli intermedi con cui fare tutto, per fare in particolare i nuovi materiali, per arrivare al moplen che Gino Bramieri pubblicizzava a Carosello facendolo diventare il simbolo della modernità.
Naturalmente si era giovani e in cima ai nostri pensieri non c'erano certo sempre queste cose. C'era da scoprire il mondo e la vita, ci si voleva soprattutto divertire! La società cominciava ad offrire nuove possibilità ed attrazioni. Non erano quelle di oggi, ma bisognava approfittarne il più possibile. Anche a scuola, dove l'ambiente è sempre stato assai libero, si pensava, per quanto possibile, a divertirsi e spesso ci si riusciva. La consapevolezza della propria condizione, la volontà di affermare il proprio ruolo e la propria dignità, di costruire migliori opportunità per il proprio futuro però c'era. Certo era alimentata, come sempre avviene, da minoranze attive e impegnate, ma si può dire appartenesse in qualche modo a tutti. A muoversi, a "fare politica", erano certamente delle minoranze. Ma al Fermi si è trattato, in quegli anni, di minoranze più ampie, più attive e anche più riconosciute, che in qualsiasi altra scuola modenese. Era dal Fermi che partivano le "agitazioni", che si coinvolgevano anche gli altri istituti in quelli che erano i primi "movimenti studenteschi". Il Fermi, per questo, si era conquistato la nomea di "scuola comunista". Una nomea utilizzata spesso strumentalmente e sprezzantemente contro l'istituto, anche se, in verità, gli studenti attivi e politicamente impegnati, non erano solo quelli della FGCI (io fra questi), ma anche cattolici (veri e praticanti) e tanti senza etichetta.
Pensare al futuro, a come garantirsi maggiori e migliori opportunità per la vita futura, fu al centro di un pezzo di storia, che forse non molti ricordano, quella della lotta per l'ammissione dei diplomati degli istituti tecnici all'Università.
In quegli anni si poteva accedere all'Università solo dai licei, i periti non potevano farlo. La cosa era avvertita come una ingiustizia e una discriminazione. Non si capiva perché, dopo aver completato un corso di studi come il nostro, che veniva ritenuto, non a torto, impegnativo e qualificato, non si potesse accedere all'Università, almeno per le lauree attinenti alla propria specializzazione. Si creò quindi in Italia un movimento che chiedeva che anche i diplomati degli istituti tecnici avessero la possibilità di entrare all'Università. A Modena fu dal Fermi che partì la scintilla del movimento. Esso coinvolse poi anche gli altri istituti tecnici modenesi, con numerose manifestazioni per le strade della città. Grande animatore ne fu Paolo Levoni, che divenne poi, guarda caso, dirigente carismatico del sindacato nazionale dei chimici e biologi italiani. La lotta alla fine fu vincente, dopo qualche tempo la legge fu cambiata dando anche ai diplomati degli istituti tecnici la possibilità di accedere ad alcune facoltà universitarie. Per la piena liberalizzazione ci volle il '68. Il tradizionale giornalino scolastico era un altro strumento di espressione e partecipazione che gli studenti del Fermi si erano dati. Si chiamava l'incontro, era fatto da più pagine ciclostilate, piegate a metà e fascicolate, e aveva una periodicità più o meno mensile. A quarant'anni di distanza i ricordi si fanno tenui e non sono in grado di dire degli argomenti con cui si riempivano quelle pagine. Certamente c'erano divertissement o gogliardate su studenti, insegnanti e situazioni interne od esterne alla scuola, ma anche articoli di riflessione e testimonianza sui problemi degli studenti, della scuola e di ciò che ci succedeva attorno.
Ricordo però un episodio che fu una sorta di caso Zanzara − verifìcatosi qualche anno dopo al liceo Parini di Milano con ampio spazio sulla stampa nazionale, come ricorderà chi ha la mia età − ante litteram. Gli studenti delle quinte classi (si trattava delle prime o delle seconde quinte classi dalla nascita dell'Istituto, io ero in seconda o in terza) avevano ottenuto di andare, con la gita di fine corso, a Vienna. Allora andare all'estero non era certo usuale e, dunque, il fatto rappresentava insieme una importante conquista e un riconoscimento. Qualcuno raccontò della gita sul giornalino e scrìsse che nel viaggio di ritorno si cantava, ma non tutti potevano farlo perché...impegnati a baciare le ragazze. E dire che il coro non si sarà molto ridotto, visto che allora le ragazze erano in numero davvero esiguo! L'articolo fu letto anche fuori dalla scuola e, in una società che era ancora un po' bigotta e oscurantista, si scatenò il pandemonio. Ci furono interrogazioni in Consiglio Provinciale e per più giorni "la notizia" riempì i giornali cittadini.
Il "caso" fu vissuto al Fermi, fra gli studenti e credo anche fra gli insegnanti, senza particolari drammi e agitazioni. Certo ne derivarono autocritiche, rimbrotti e ramanzine, nonché qualche conseguenza. Queste furono sostanzialmente due: una accresciuta coesione e solidarietà fra gli studenti che si erano sentiti in qualche modo "tutti colpiti" e l'abolizione delle gite all'estero. La mia classe, due o tre anni dopo, approdò non senza rimpianti a.. .Napoli. Fra gli studenti del Fermi c'era, alimentata dalle "minoranze" che ho ricordato, una domanda di partecipazione, di poter dire la propria sulla vita e il funzionamento della scuola. I movimenti studenteschi del '68 nacquero all'insegna della "lotta all'autoritarismo". Fino al 1966, data del documento, non si può dire che questa parola girasse fra gli studenti né che identificasse quello che esprimeva. Tanto più al Fermi dove, in effetti, era difficile parlare di autoritarismo. Un corpo insegnate e una direzione dell'Istituto qualificati, aperti e progressisti, l'attenzione e la considerazione che agli studenti e al funzionamento della scuola veniva dall'Amministrazione Provinciale, facevano del Fermi una comunità di studi alquanto serena e solidale, senza particolari problemi e tensioni, come la stessa vicenda della gita a Vienna aveva evidenziato.
Anche il Fermi non si sottraeva però a quello che era il clima generale in cui viveva la scuola italiana e che si viveva al suo interno. Una scuola che stava diventando rapidamente "di massa", considerata dalle famiglie e dagli studenti stessi una "conquista", ma in cui agli studenti era riconosciuto, in condizioni non sempre ottimali, il diritto di "studiare" a condizione però di "stare zitti". Le stesse famiglie non avevano alcuna voce in capitolo sulla scuola e sul suo funzionamento. I "decreti delegati" − anch'essi ormai un reperto storico − che superarono la concezione tutta burocratica ed autoreferenziale della gestione e della vita della scuola, arrivarono molto più tardi come frutto, anch'essi, della stagione del '68. Questo era in evidente e stridente contrasto con quanto avveniva nella società, in cui cambiavano i costumi, cresceva la domanda di libertà individuali e collettive e di protagonismo sociale e politico. Le avanguardie, le minoranze più consapevoli degli studenti, si proposero allora di aggredire il problema. Prese piede fra i movimenti politici giovanili l'idea e l'obiettivo di dare voce e rappresentanza agli studenti nella vita della scuola. E il modello, il riferimento, non poteva che essere quello della democrazia rappresentativa. Il fascino della democrazia diretta era ancora lontano e sconosciuto, poi c'erano gli esempi degli studenti universitari e soprattutto degli operai. Le Commissioni interne, che con la lotta e non pochi contrasti si erano e si stavano affermando nelle fabbriche, costituivano l'esempio a cui si guardava, l'obiettivo diventava quindi dare anche agli studenti le loro "commissioni interne".
Del Consiglio di Istituto, della discussione dello statuto e della costituzione dell'Organismo Rappresentativo Studentesco non ho più, sinceramente, quasi alcun ricordo. Il documento che è stato ritrovato è dunque l'unica fonte di informazione a cui posso fare riferimento.
Se lo si legge si ritrovano molti dei tratti, dei motivi e dello spirito che ho ricordato. L'ORS viene definito come "organismo democratico ed autonomo nel! 'ambito dei principi costituzionali delia scuola". Se questi principi siano quelli della Costituzione repubblicana o, più modestamente, quelli della scuola stessa, non è chiarissimo, ma certamente si riteneva che fossero sovrapponibili, se non gli stessi. Anche quell'autonomo è importante. L'attenzione alle possibili strumentalizzazioni politiche era argomento sensibilissimo e sempre all'ordine del giorno. Dei giovani e degli studenti non c'era molta considerazione, l'idea che potessero avere "loro idee" e una propria volontà era poco accettata e diffusa fuori e anche dentro la scuola. Se quindi si "usciva dalle righe", succedeva "qualcosa" doveva esserci necessariamente dietro lo zampino di qualche mestatore ed agitatore "politico". Da qui l'importanza che aveva sottolineare l'autonomia, rafforzata dall'aggiungere che l'ORS "esprime la volontà e tutela gli interessi" degli studenti.
Nello Statuto si esprime la volontà di partecipazione che serpeggiava fra gli studenti, con qualche anticipazione di quello spirito nuovo di autovalorizzazione e protagonismo giovanile che esploderà negli anni successivi. Mentre si afferma che l'obiettivo dell'organismo studentesco è quello di "maturare nella comunità studentesca una coscienza democratica attraverso la partecipazione" ci si propone, infatti, anche di dar luogo, con il suo funzionamento, ad una "esperienza di autogoverno studentesco". Non siamo ancora alle parole d'ordine che campeggeranno sugli striscioni del '68, ma certo si intravede già quell'orizzonte.
In termini programmatici, nella bozza di Statuto si indicano una serie di obiettivi e di azioni che ancora oggi potrebbero essere assunti come best practices per il funzionamento della scuola e della vita scolastica. Obiettivi che potrebbero costituire utili riferimenti per valutare quanti e quali passi in avanti la scuola italiana ha compiuto nel suo travagliato cammino degli ultimi quarant'anni.
Si indicano, in particolare, due obiettivi. Il primo di dovuto e incontestabile profilo sindacale per un organismo rappresentativo degli studenti: "favorire la vita scolastica dello studente". Il secondo, più impegnativo e "avanzato": valorizzare il ruolo dello studente "in rapporto alla sua crescita umana e civile ".
Come si perseguono questi obiettivi? In primo luogo con la partecipazione degli studenti. Una partecipazione "consultiva", e finalizzata "alla risoluzione dei problemi della vita dell'Istituto". Dunque, nel rispetto delle regole e dei poteri costituiti. Poi, attraverso il "dialogo con gli Insegnanti" (scritto con la maiuscola!) per la ricerca di un nuovo ed efficiente rapporto educativo e didattico" e "favorendo la partecipazione delle famiglie a tale ricerca". Letto oggi si potrebbe definire un programma moderato e riformista, che con quegli aggettivi, nuovo ed efficiente, sottolinea la domanda di arricchire e rendere effettiva, per gli studenti e per le famiglie, la conquista della scuola.
La "crescita umana e civile " la si persegue però anche promuovendo "attività volte a integrare ed approfondire lo studio delle materie contemplate nei programmi scolastici per una formazione culturale, civile e professionale degli studenti" e con la "sensibilizzazione degli studenti ai fondamentali problemi della società d'oggi, attraverso il libero dibattito delle idee ".
Sensibilizzazione è una parola un po' magica, che si usava già allora e di cui i movimenti studenteschi degli anni successivi faranno ampio uso ed abuso. Prima del '68 semplicemente e ingenuamente, rendere gli studenti edotti dei "problemi della società d'oggi", della modernità che avanzava e in cui si era immersi, per sottrarli al "qualunquismo", che si diceva li caratterizzasse. Ed è significativo che ci si proponga di sensibilizzarli "attraverso il libero dibattito delle idee". Dopo il '68, sensibilizzare significherà, in una accezione ben più politica, meno dialogante e tollerante, far vedere la "vera natura delle cose" agli studenti e portarli, inevitabilmente, a ribellarsi e a lottare.
Quanto alla promozione di attività integrative e di approfondimento al fine di ampliare la "formazione culturale, civile e professionale" degli studenti, l'obiettivo è probabilmente più la proiezione di quanto già nell'Istituto si viveva che non il frutto di una spontanea aspirazione studentesca. Anche se c'è da dire che le occasioni culturali e le possibilità di conoscere, ovviamente per chi era interessato, cose nuove e fuori dall'ambito scolastico, non erano molte, certo non quelle di oggi. Sta di fatto che il Fermi, con il sostegno dell'Amministrazione Provinciale, offriva ai suoi studenti molte e variegate occasioni e attività integrative della vita scolastica: gite di istruzione, visita alle fiere, spettacoli cinematografici e teatrali. Memorabile fu la trasferta al Piccolo Teatro di Milano per vedere il Galileo di Brecht messo in scena da Giorgio Strelher.
La rappresentazione del "Galileo" fu un avvenimento culturale straordinario, di prima grandezza nazionale. Lo spettacolo fu rappresentato per lungo tempo a Milano, ma non era previsto che girasse per l'Italia. Modena andò allora a "teatro in trasferta", per alcune rappresentazioni riservate dal Piccolo ai modenesi. Fra i tanti pullman che partirono per Milano, uno o due erano di studenti del Fermi, guidati dal Preside e da Rubes Triva, l'allora Assessore all'Istruzione della Provincia e organizzatore della "trasferta". E fu davvero cosa istruttiva e memorabile, me lo ha testimoniato anche il fatto che "l'evento" è riaffiorato fra i ricordi più forti nella cena della mia classe, a 40 anni dal diploma!
Nella bozza, di regolamento dell'ORS c'è, infine, un punto che dice: "promozione di rapporti fra la Scuola e la realtà culturale, sociale, economica della nostra Provìncia ". Il rileggerlo mi induce ad un'ultima riflessione sul ruolo che il Fermi ha avuto nello sviluppo della nostra realtà provinciale.
In quegli anni, l'anno scolastico si apriva al Fermi con l'incontro di studenti e insegnanti con il Presidente, il Vice presidente o l'Assessore dell'Amministrazione provinciale. L'obiettivo che ci veniva proposto era che il Fermi e il suo funzionamento, fossero un "esempio" e un "modello" di scuola, capace di contribuire al meglio alla crescita non solo economica e produttiva, ma anche civile e democratica della nostra Provincia. A cinquant'anni dalla nascita del Fermi credo si possa dire che l'obiettivo è stato in gran parte raggiunto. Ne è prova che tanti dei tecnici, dirigenti e manager dell'industria modenese hanno studiato e si sono diplomati al Fermi, che tanti "fermini" sono diventati professori universitari, sono stati e sono dirigenti politici, amministratori pubblici, esponenti della classe dirigente modenese. Non è sbagliato e fuori luogo allora pensare che, insieme a tante altre cose e meriti, un piccolo contributo a questi risultati sia venuto anche da quegli antichi e ingenui movimenti studenteschi, dall'idea che il Fermi fosse anche scuola democratica e di democrazia.
Nel celebrare il 50° dell'Istituto c'è quindi che da augurarsi che "chi di dovere" si proponga e assuma l'impegno e l'onere di operare, in condizioni e in una società certo del tutto diverse dal passato, per confermare gli obiettivi originari e rinnovare i risultati fin qui ottenuti.