CICLOSTILAVANO CONTINUAMENTE

Anna Maria Pedretti
(insegnante)

Stampante
Sono entrata al "Fermi" nell'ottobre del 1970, laureata in lettere da appena un anno, con pochissima esperienza di insegnamento: qualche supplenza qua e là e un anno nella scuola media di un paesino sperduto della Bassa Mantovana, lontano 35 km da qualunque città di una certa importanza. Ho iniziato a insegnare nel primo corso serale che l'istituto organizzava (ancora senza riconoscimento ufficiale) in una classe parallela a quella dei prof. Luciano Camurri, mio compagno di università e, successivamente, di vita.
Mi sono trovata subito immersa in un clima attivo di discussione e di riflessione critica. Gli studenti del "Fermi" erano molto impegnati, erano sempre a scuola: mattino, pomeriggio e sera. C'erano assemblee di classe, di istituto, di inter−istituto, lavori di gruppo sugli argomenti più svariati, comitati di base. Oltre ai volantini di carattere "rivendicativo" sulla scuola (che ciclostilavano continuamente), mi mostrarono orgogliosamente la copertina stampata (con l'aiuto dei prof. di Officina) del libro "Lettera ad una professoressa" che avevano pazientemente battuto a macchina su matrice e ciclostilato, raccolto e rilegato.
Anch'io, appena me lo permettevano gli impegni della scuola in cui insegnavo il mattino, andavo al "Fermi", sia perché dovevo prendere accordi con Camurri sul programma da svolgere nel corso serale, sia perché ero attirata dal dibattito serrato che si svolgeva tra gli studenti e alcuni insegnanti.
Due sono le cose che sempre mi hanno colpito nell'atteggiamento degli studenti del "Fermi", in particolare di quelli più impegnati all'interno del Movimento Studentesco: una era la volontà unitaria che li animava, la volontà di ascoltare i bisogni di tutti e di trovare un accordo operativo pur rispettando i più svariati punti di vista. Non intendo dire che non vi fossero discussioni anche accese e momenti di scontro e di rottura tra i diversi gruppi che continuamente si formavano nel magma ribollente degli studenti (gli anarchici, i giovani comunisti, quelli di "Comunione e Liberazione", di "Lotta Continua, il gruppo del "Manifesto", "Avanguardia Operaia", ecc.); ma ha quasi sempre prevalso, almeno secondo ciò che io ricordo, la volontà di comporre i dissidi, di persuadere, di trovare dei punti comuni di lotta.
La seconda era la serietà con cui venivano affrontati i temi generali, di carattere politico e sociale, e quelli specifici della scuola, in particolare la didattica, i contenuti dei programmi, i metodi di valutazione, il rapporto tra docenti e studenti. In quel contesto ho conosciuto in modo approfondito (perché le loro pagine erano oggetto dì accesi dibattiti con studenti e insegnanti), oltre al già ricordato "Lettera ad una professoressa", testi come "La ricerca come antipédagogia" di De Bartolomeis, "Summerhill" di Neill, "La pedagogia degli oppressi" di Freire, "Storia marxista dell'educazione" di Ponce, "Autoritarismo e psicoanalisi nella scuola" di Adler, "Quale scuola?" di Tolstoi ed altri; ho ascoltato relazioni di docenti su esperienze scolastiche in diversi paesi del mondo.
Mi sono trovata a ripensare in modo critico alla mia esperienza scolastica da studente, che pure era stata positiva, quanto ai risultati, ma non mi aveva fornito alcuna chiave di lettura della storia recente e della realtà politica e sociale e, soprattutto, non mi aveva messo nella condizione di attrezzarmi con gli strumenti adeguati per la professione che avrei svolto. Soprattutto ho potuto ascoltare e capire i bisogni degli studenti.
L'insegnamento in un corso serale per lavoratori−studenti è stato uno stimolo ulteriore di riflessione e di ricerca.
Si trattava di calibrare il metodo di insegnamento su di una realtà duplice: gli studenti erano adulti, lavoratori, padri di famiglia con una personalità definita, con esperienze concrete e consolidate di vita e di lavoro; ma erano persone che erano state lontane dalla scuola da parecchi anni e vi si riconoscevano con un atteggiamento misto di riverenza nei confronti di qualunque contenuto culturale e di timidezza riguardo le loro capacità di apprendere. lo ho imparato da loro e con loro: a preparare le lezioni utilizzando le espressioni più efficaci, i paragoni più concreti: a scrivere dispense "essenziali" nei contenuti e comprensibili nel lessico; a discutere sugli argomenti più svariati in modo da stimolare il dibattito e quindi le idee per rendere tutti capaci di esprimersi in termini corretti ed efficaci; a correggere i loro scritti, cercando di evitare l'umiliazione di trovarseli pieni di segnacci rossi e blu e invece fornendo elementi di riflessione critica, così da stimolarli nella ricerca degli errori formali e delle contraddizioni concettuali.
Vorrei evitare anche solo il sospetto di parlare di quest'esperienza in modo retorico, ma non posso dimenticare il dibattito serrato che si svolgeva tra quei lavoratori−studenti, i loro insegnanti e gli studenti del mattino sul significato che aveva il ritorno a scuola di adulti che, mentre aspiravano comprensibilmente a un titolo di studio, cercavano anche di impossessarsi di maggiori strumenti culturali. Non posso dimenticare la loro serietà e il loro impegno, non posso dimenticare che la scuola si apriva per loro anche la domenica mattina (grazie all'opera gratuita di un bidello "mitico" come Giovanni Bedogni e alla disponibilità di noi insegnanti), perché potessero avere a disposizione quattro ore intere per svolgere il tema di italiano. Come non posso tacere l'importanza che ebbe per me lavorare "in tandem" con Luciano Camurri, sostenuta dal suo aiuto concreto e continuamente sollecitata dal suo stimolo critico.
Ho sempre pensato di aver assimilato in quell'anno (e nei due che seguirono, quando gli studenti del "diurno" furono impegnati in due esperienze significative: la creazione di una "Antologia" per il biennio e l'insegnamento in un corso per lavoratori per il conseguimento del diploma di terza media) un concentrato di corsi di aggiornamento che mi ha fornito gli strumenti necessari per affrontare in seguito con sufficiente serenità il mio lavoro difficile e delicato di insegnante.