L'incontro − novembre 1966

Le forze della natura e le colpe degli uomini
Olmes Bisi

L'Italia é stata sconvolta da una tremenda alluvione: un terzo del territorio nazionale colpito, città come Firenze e Venezia invase dalle acque e dal fango, vastissime campagne allagate. Ancora oggi si ripete lo spettacolo di intere popolazioni che hanno perso tutto, che dopo giorni di angoscia terribile, di lutto, vedono pendere sopra il loro capo il terribile spettro della disoccupazione, della rovina economica, della fame, del freddo inverno che si avvicina.
Tutto ciò è dovuto ad una eccezionale ondata di maltempo che si è abbattuta sul nostro paese. Mentre si sta lavorando incessantemente per fare ritirare le acque, per ripulire le città dal fango e dai detriti, per riattivare i più elementari servizi, mentre in tutto il paese si sta svolgendo una nobile gara per aiutare le località e le popolazioni più colpite, viene spontaneo chiedersi (così come del resto ha fatto ciascun cittadino italiano e, in modo più accentuato, lasciando intravedere una risposta ben precisa, coloro che sono stati direttamente colpiti): è stata solo colpa del maltempo ?
Non vi è dubbio sul carattere di eccezionalità e sulle dimensioni della tragedia che ci ha investiti. C'è però da chiedersi se di fronte a questo evento meteorologico, non unico, che si ripete con minore o maggiore portata ogni anno, causando quasi sempre danni ingenti, il nostro paese fosse preparato. Purtroppo in Italia é stato fatto ben poco per preparare il territorio a "ricevere" nel miglior modo possibile queste calamità naturali.
Occorreva muoversi su due binari: svolgere una efficace azione di rimboschimento delle nostre zone montane e di regolamentazione dei corsi d'acqua.
Per ciò che riguarda il problema del rimboschimento in Italia c'è da rilevare che vi sono milioni di ettari di terreno montano abbandonati, nei quali, cioè, il bosco è assente o quasi. In ciò consiste una delle principali cause delle alluvioni che con frequenza impressionante devastano il Paese.
Quando piove in queste zone, due gocce d'acqua su tre scendono a valle e moltiplicandosi trasportano nella loro corsa terriccio e sassi.
Quando le precipitazioni sono abbondanti, è una valanga d'acqua e di fango che precipita ingrossando fiumi e torrenti.
Le radici delle piante invece raffrenano il terreno impedendo le frane. La parte superiore degli alberi impedisce fino al tardo autunno la caduta diretta dell'acqua sul terreno, che è quindi protetto da una erosione violenta. Le foreste, cioè, rappresentano una grande spugna naturale che trattiene una parte considerevole delle piogge.
Altra causa importantissima delle alluvioni è la scarsa regolamentazione dei corsi d'acqua, soprattutto nella prima parte del loro percorso.
Anche in questo campo, purtroppo, è stato fatto ben poco per combattere il male alle radici e per difendersi, nel miglior modo possibile, dalle catastrofiche calamità naturali.
Basti pensare che secondo il "piano orientativo" varato nel 1952, si dovevano spendere per la "sistematica regolazione dei corsi d'acqua, per la loro razionale utilizzazione e per la difesa del suolo" 1105 miliardi; ne sono stati spesi solo 700 (compresi 98 impiegati per eseguire lavori non previsti).
Da qui un giudizio espresso dal Consiglio Superiore dei LL.PP. che parla di "economie assurde", di "colpevole leggerezza" e di "miopia politica ed economica".
Basti pensare che nel bilancio statale di quest'anno per l'imbrigliamento delle acque, il rimboschimento e la sistemazione del territorio sono stati previsti solo 1 miliardo e 400 milioni , cifra pari a quella che serve a costruire 1400 metri di autostrada!
Qual è, poi, l'uso della scienza nel nostro paese? Su tremila geologi laureati, almeno 2500 sono disoccupati o sottoccupati; ebbene, in Italia, paese dal rilievo quanto mai accidentato e colpito ogni anno da un numero elevatissimo di movimenti franosi e di disastrose alluvioni, il servizio geologico statale ha un organico di soli 33 geologi!
Queste sono soltanto alcune considerazioni per ciò che riguarda le cause "non naturali" del recente disastro. C'è anche da notare che il paese non era preparato nemmeno dal punto di vista della difesa civile (e qui si sono notate le lacune e i ritardi nell'organizzazione dei soccorsi e degli aiuti). In quest'articolo non si vuole affrontare questo problema che pure esiste e va tenuto presente; valga un esempio soltanto: a Modena, città tra due fiumi così pericolosi quali il Secchia e il Panaro, i vigili del fuoco possiedono un solo mezzo anfibio. Esprimere in ogni modo la solidarietà, stringersi tutti attorno alle popolazioni colpite, non vuoi dire cancellare e nascondere artificiosamente e colpevolmente i molti punti interrogativi sulle cause e gli effetti di questa non del tutto "inevitabile" né soltanto "naturale" catastrofe.


Un giorno a Firenze
Graziano Oriandi

Mi sembra inutile parlare dei danni arrecati da questa alluvione in gran parte d'Italia e in particolare a Firenze dato che tutti sanno qual è la situazione.
Vorrei ringraziare e rivolgere il mio elogio a tutti quegli studenti dei Fermi che hanno partecipato ai lavori di soccorso della città di Firenze, e, nonostante il poco tempo a disposizione, hanno apportato tutto il loro contributo a questa causa comune.
Firenze, nonostante siano trascorsi 20 giorni dalla tragica data dei 4 novembre e nonostante che durante questo tempo l'esercito, i vigili dei fuoco, il Genio civile e tanti volontari abbiano lavorato per liberare la città dal fango, nelle vie dei centro storico presenta un aspetto desolante con strade e scantinati ancora pieni di melma e di ogni altra porcheria; in alcune zone non si riesce nemmeno a respirare tanto è il fetore esalato dalla merce che imputridisce.
I negozi dei quartiere di Santa Croce sono ancora chiusi, anche se in via di riapertura e la distribuzione dei viveri e dell'acqua è ancora difficile.
Questa, in poche righe, è la Firenze che ho visto la settimana scorsa, ben diversa dalla Firenze visitata anni orsono.
L'opera degli studenti dei Fermi anche se evidentemente utile non mi è sembrata ben coordinata e diretta a corrispondere alle esigenze più pressanti della popolazione fiorentina. Riferendomi più particolarmente al viaggio a cui ho partecipato, dirò che mentre una parte degli studenti è stata impegnata alla biblioteca nazionale a fare la catena per il trasporto dei libri all'aperto, un altro gruppo di ragazzi è stato impegnato nella chiesa di Santa Croce nei lavoro di raschiamento e di pulitura di alcuni metri quadrati di pavimento, di confessionali e di due sarcofagi.
Siamo stati utili dunque. Ma devo esprimere alcune riserve che riguardano solo gli studenti dei Fermi.
A Firenze non ci sono solo le case, i monumenti e i volumi della biblioteca, ci sono anche gli uomini vivi i cui bisogni per me sono più importanti delle testimonianze di civiltà.
Proprio perché si dimenticano gli uomini reali, pare che l'alluvione sia stata solo a Firenze e che lì bisognava concentrare una delle solite catene di solidarietà nazionale post factum, (dopo il fatto) cioè quando il disastro è compiuto.


Contro la scuola−azienda
Anonimo

C'è un pericolo che nessuno di noi deve sottovalutare: che nel rapporto costituito su scala nazionale tra mondo della produzione e istituti scolastici, questi ultimi siano costretti a svolgere una funzion e subalterna.
Pericolo tanto più reale per gli istituti tecnici industriali, più direttamente "usati" da certi strati sociali per la prospettiva di più immediato impiego dopo il costoso diploma, ma soprattutto usati per fornire quadri tecnici medi in un'economia che tende a strutturarsi verso una maturità produttiva anche a livello sociale, cioè a livello di un'armonia interna nella gerarchia dei piani di direzione od esecutivi. Proprio per la funzione assegnata è facile che l'ITI si adegui ad una visione aziendalistica della scuola, anche attraverso le istituzioni tradizionali operanti (che in genere sono considerate strutture di democrazia formale interna), se adoperate secondo il criterio di apportare migliorie varie di efficienza scolastica. E bisogna essere franchi fino ad affermare che per molti il famoso primato del Fermi si fonda su un giudizio di efficienza aziendale (attrezzature tecniche, assistenza agli studenti, strumenti per sviluppare iniziative autonome, anche se controllate, uso dell'istituto di Igiene Mentale, di un centro di orientamento professionale, ecc).
Se la coscienza del cittadino medio è tranquilla, la questione si pone altrimenti per i soggetti della scuola, gli insegnanti e gli studenti.
Questi si rendono conto che la loro stessa attività sfugge al loro controllo, perché è condizionata da una logica che è, in: apparenza, esterna alla scuola.
Che autonomia volete che abbia la scuola (se mai l'ha avuta), quando il carattere subalterno di essa si spinge fino a quasi giustificare la sua esistenza nella richiesta ai detentori di una logica aziendale (mondo della produzione): "Come volete che vi prepariamo i periti? Avete dei suggerimenti da darci?". Ora, se è difficile strappare gli istituti scolastici alla razionalità della moderna logica produttiva, una cosa è meno ardua e piuttosto necessaria: acquistare consapevolezza della funzione che la società assegna al perito tecnico e prepararsi a entrare in tale società con tutte le armi di una coscienza critica sulle condizioni del lavoro nel mondo contemporaneo.
In genere la scuola si mostra irresponsabile nel consegnare disarmati tanti giovani per l'immediato impiego e, quando prende iniziative responsabili in tal senso, non esce da una logica assistenziale e, quindi, sempre subalterno.
È necessario, dunque, rompere con questa azione aziendalistica della scuola, che lo studente di oggi non sia domani il perito per altri, che egli sia già oggi cosciente dei problemi che lo attendono e del sistema in cui vive; che l'insegnante non sia, come nel passato e nel presente, produttore di una merce di lusso; che, insomma che l'insegnante e lo studente non siano creature d'altri. E, visto che al Fermi ci sono le premesse per sviluppare autonome iniziative nella trama di democrazia formale che ogni istituto dovrebbe avere come punto di partenza minimo, è possibile creare dei gruppi di lavoro sul rapporto "scuola−cultura−società" operando con un uso diverso degli strumenti a disposizione (biblioteca, consiglio studentesco, giornale interno).
A parte il problema sempre attuale dell'aggiornamento culturale su questioni letterarie degli ultimi anni, ci interessa fare alcune proposte di lavoro (nella forma di conferenze dibattiti) sulle condizioni di lavoro del tecnico nel mondo contemporaneo. Le proposte saranno definite concretamente e anche l'organizzazione delle iniziative, dal consiglio studentesco; qui hanno solo un valore indicativo.

Secondo noi l'indicazione potrebbe essere cosi articolata: L'incontro in ogni numero dovrebbe contenere delle pagine di documentazione sui temi trattati, in modo da sollecitare gli studenti (e gli insegnanti) ad una partecipazione attiva. Per venire incontro ad esigenze diffuse ed allargare l'orizzonte dei problemi, riteniamo opportuno impegnarci in questioni di storia contemporanea che non ci allontanano dalle proposte fatte (ad es. "economia del benessere ed economia sottosviluppata").
Siamo consapevoli che c'è uno scarto fra la premessa del discorso e le proposte, ma siamo costretti a muoverci entro orizzonti costituiti.
La ricchezza del lavoro si vedrà in pratica.